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cune sanguinosissime per ambe le parti; tutte molestissime agli alleati.

Questi fecero un altro tentativo di finirla: avendo armato moltissime batterie, essendo giunte dalla Francia e dall' Inghilterra enormi quantità di proiettili, deliberarono di aprire un bombardamento generale contro la piazza, a cui, secondo il risultato, sarebbe seguito l'assalto delle truppe.

Cominciò il fuoco la mattina dal 9 aprile e continuò quasi senza interruzione per ben 14 giorni. Gli alleati avevano in batteria oltre 500 pezzi (1) e gettarono in Sebastopoli più di 200 mila proiettili.

La piazza rispose col massimo vigore. « Ogni ventiquattr❜ore, dice il capitano Anitschkof, il nemico ci smontava in media 15 pezzi; ma i numerosi depositi dei nostri arsenali e le artiglierie tratte dalle navi ci mettevano in grado di sostituire immediatamente i pezzi guasti. » Si aggiunga che le comunicazioni libere coll'esercito raccolto sull'altipiano della Belbek davano agio di sostituire i difensori morti o feriti.

La sera del quattordicesimo giorno, gli assedianti, vedendo che non riuscivano a far tacere l'artiglieria della piazza, deliberarono di sospendere il bombardamento e continuare i lavori di approccio. La flotta alleata, memore della sorte toccatale altra volta, s'era tenuta a rispettosa distanza, senza concorrere al bombardamento. E frattanto aumentavano le stragi del colera.

Si ripresero da una parte gli approcci, dall'altra i contrapprocci e le sortite notturne; anzitutto il riparo dei guasti. Di tanto in tanto gli alleati davano l'assalto ad una di quelle opere dette imboscate, che i russi scavavano ed alzavano in una o due notti e dove poi si raccoglievano per fare le sortite; ma quando dopo una mischia sanguinosa erano riusciti a impadronirsene, non avevano ottenuto gran che, perchè potevano bensì distruggerla, ma, battuti dalla piazza, non vi si potevano mantenere.

(1) 501, secondo la Relazione del generale Niel; 508, secondo la Relazione russa del capitano Anitschkof.

Sulla fine di aprile, l'attività degli alleati si rallentò. Le cause n'erano molte: bisogno di nuovi rinforzi, perchè il colera e i combattimenti avevano fatto gran vuoti, indecisione dei capi, stanchezza di tutti. Il generale Canrobert oramai vedeva che senz'altri lunghi e penosi lavori, senza spargere un lago di sangue, non si sarebbe venuti a capo di nulla; non gli pareva che l'impresa valesse questi sacrifizi e desiderava di essere esonerato dal comando supremo, restando in Crimea come comandante in sott'ordine.

Ma non era rallentata l'attività dei russi. A forza di palizzate e sacchi di terra erano riusciti a costruire davanti al bastione centrale un'opera chiusa da cui prendevano a rovescio i tronchi di trincea più avanzati. Il generale Pélissier, comandante l'attacco di sinistra, disturbato ne' suoi lavori, insisteva perchè gli fosse concesso dare l'assalto a quest'opera; ma al generale Canrobert ripugnava impegnare un combattimento davanti a un fronte che non era il vero d'attacco. Pure cedette all'insistenza e l'assalto fu dato il mattino del 2 maggio. I russi opposero la più viva resistenza, ma furono cacciati dall'opera; tentarono riprenderla e non vi riuscirono; però l'impresa costò ai francesi un migliaio d'uomini fra morti e feriti.

Queste vittorie sanguinose non erano fatte per incoraggiare gli alleati. Canrobert non si sentiva di più oltre affrontarne la responsabilità. Oltracciò, come sempre avviene quando le cose non vanno a seconda, vi erano discordie in campo. Canrobert andava poco d'accordo con Pélissier per naturale ripugnanza a prodigare il sangue dei soldati; andava anche meno d'accordo con lord Raglan perchè si prodigava specialmente sangue francese. I capi tenevano frequenti riunioni, specie di consigli di guerra, e sulle generalità facilmente si conveniva, ma venendo ai particolari e alla ripartizione dei còmpiti, sorgevano le obbiezioni e l'accordo svaniva. Il 16 maggio Canrobert chiese l'esonero dal comando in termini tali che gli fu subito concesso; il 19 questo fu assunto dal generale Pélissier. Tale era la situazione all'arrivo dei piemontesi in Crimea.

VIII.

Sbarco e accampamento dei piemontesi. — I primi casi di colera. Il quartier generale a Kadi-Koi.

Il generale Alfonso La Marmora, comandante del nostro corpo di spedizione, scese a Balaclava, come abbiamo detto, il 9 maggio 1855. Era ad attenderlo il generale Airey, quartier mastro del corpo di spedizione inglese, il quale lo condusse a visitare gli accampamenti inglesi e le posizioni prossime ad essi, indicandogliene due come adatte all'accampamento dei piemontesi e lasciandogliene la scelta.

<< L'una di queste (scrive il generale La Marmora nel suo rapporto dell'11 maggio al Ministro della guerra), onorevole e che io ambisco perchè in condizione di porre subito in evidenza le nostre truppe, è costituita dalla linea di colline che, partendo da Balaclava, dominano la valle della Cernaia e che in parte servirono già di campc all'azione del 25 agosto; l'altra più addietro sulle alture di Karani. »

Queste ultime sono colline a dorsi appiattiti, quasi terrazzi, che sorgono ad ovest di Balaclava e ad est della piccola catena dei monti Sapuni; esse riempiono l'angolo formato da quella catena con la scogliera del lido. L'espressione più addietro, usata dal La Marmora, si riferisce alla distanza loro dalla linea di circonvallazione, ma rispetto al punto di sbarco erano molto più avanti, cioè, più vicine.

Quantunque ragioni d'ordine morale inducessero il generale in capo a dare la preferenza alla prima di queste posizioni, ragioni impellenti di necessità materiali lo determinarono a scegliere, per il momento, la seconda, siccome quella ch' era più prossima a Balaclava e quindi più acconcia a riunirvi le truppe mano mano che sbarcavano, formarle, passarle in rivista, provvederle dei viveri, ecc.

Scelta, per questo, la posizione di Karani, se ne prese subito possesso, si tracciarono gli accampamenti e si assegnarono i posti ai diversi corpi che dovevano sbarcare. Le operazioni di sbarco riuscirono difficilissime, sia per la strettezza del porto e l'insufficenza delle calate, sia per l'ingombro dei legni che entravano ogni giorno e di quelli che stavano in porto permanentemente servendo ad uso di magazzini per gl'inglesi, sia per la scarsità dei mezzi ch'erano a nostra disposizione. Si aggiunga che, per quasi tutto il mese di maggio, si ebbe in quei paraggi il mare agitato ed il tempo piovoso.

I legni entravano in porto a suono di musica, ma lo spettacolo che si presentava agli spettatori non era incoraggiante. Il porto aveva l'aspetto di una vera cloaca. L'acqua era coperta da detriti d'ogni specie e ne usciva un fetore insopportabile. In questa cloaca bisognava talvolta aspettare qualche giorno per poter sbarcare e si stava sul bastimento pigiati come acciughe nel barile.

Quanto al materiale, era uno spreco, una distruzione. I marinai inglesi, ansiosi di sbrigarsi, mettevano giù tutto alla rinfusa, senza badare alle raccomandazioni dei nostri commissari, spesso senza neanche la loro presenza. E questi commissari intelligenti e diligenti, ma lenti, metodici, avvezzi alla routine, non mai trovatisi in simili frangenti, non sapevano da che parte voltarsi. E mentre essi piangevano sullo spreco dei viveri, gli ufficiali piangevano sulla rovina dei cavalli; mentre sulle calate del porto la roba si guastava ammucchiata ed esposta alla pioggia, i soldati nel campo di Karani mancavano di viveri, perchè non si avevano mezzi di trasporto. Le lettere dei commissari, in quel tempo, sono piene di lagnanze contro gl'inglesi; quelle dei comandanti di truppa sono piene di lagnanze contro i commissari. Naturalissima una cosa e l'altra.

Le truppe, appena sbarcate, si ordinavano alla meglio e partivano per il campo; traversavano dapprima un terreno sassoso e fangoso, ma che, avanzando, diventava migliore; passavano daccanto a vari accampamenti inglesi senza ricevere la menoma accoglienza; pareva che quei camerata non si accorgessero neppure di chi passava. Il che, quantunque spie

gabilissimo col carattere inglese, impressionava malamente i nostri. Qui giova osservare che, quantunque tra i nostri ufficiali e quelli inglesi si stabilissero rapporti della massima cortesia, appena venivano a reciproca conoscenza o per casualità o per lettere di presentazione, tra gli uomini di truppa delle due nazioni non vi fu mai famigliarità; mentre essa invece nasceva immediatamente trovandosi a contatto piemontesi e francesi. Effetto questo di somiglianza di carattere e di lingua, istinto di parentela.

Giunti al campo di Karani, i nostri soldati, quantunque privi di tutto, sentivano slargarsi il cuore, perchè il sito era bello; erano prati asciutti e coperti di fiori perchè correva. maggio. « Noi siamo in mezzo a bei fiori selvatici (scrive il tenente colonnello Di Saint Pierre), la cui varietà mi ricorda il prato Catinat di Fenestrelle nel mese di giugno » (1).

Scelti e tracciati gli accampamenti, era d'uopo stabilire in convenienti località il quartier generale, gli uffizi, un primo magazzino, un primo ospedale. Ma il villaggio di Balaclava e il pendio praticabile delle alture che lo circondano era talmente ingombro di baracche, di magazzini e di ospedali inglesi, che difficilmente si sarebbero potuti trovare pochi metri di terreno libero. Karani era troppo distante dal luogo di sbarco e d'imbarco. Per quanto a La Marmora ripugnasse, gli fu giocoforza ricorrere agli inglesi e non senza difficoltà riusci ad ottenere un ristretto spazio, già munito di 30 piccole baracche, lasciate libere da un battaglione inglese, allo sbocco di Balaclava stessa, a nord-est del porto. Poco dopo e poco lungi ottenne un altro gruppo di baracche.

Erano località convenientissime perchè vicine al porto, condizione essenziale nei primi giorni in cui dovevano aver luogo i più grossi sbarchi, e non era piccolo vantaggio, in quelle strettezze, il trovar le baracche fatte. Ivi si stabilirono il quartier generale principale, gli uffizi d'intendenza (commissariato), un magazzino viveri, un magazzino foraggi, il personale ed il materiale del treno e un ospedale di 300 letti.

(1) ALESSANDRO DI SAINT PIERRE. La spedizione di Crimea.· Spigolature dal diario di un ufficiale piemontese. Firenze, 1892.

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